E’ giusto parlare di risk management a condizione di rispondere contestualmente a tre domande:

Chi ha avuto l’occasione di seguire gli incontri promossi dal Piano Strategico col titolo Welcoming Cities ricorderà che in più di una circostanza – analizzando il concetto di accoglienza – abbiamo avuto modo di indicare la sicurezza come uno dei principali pre-requisiti della stessa e di declinarla in forma estensiva: mi sento sicuro in vacanza se non rischio di essere aggredito per strada ma anche se posso muovermi senza paura nel traffico, se l’ambiente non presenta segni di degrado (anche solo, banalmente, i rifiuti per strada), se le mie credenziali informatiche non rischiano di essere utilizzate inappropriatamente, se in caso di incidente o di malessere ho la ragionevole certezza di poter essere assistito adeguatamente, ecc. ecc. E questo per non parlare di rischi ancora più drammatici come quello che stiamo vivendo.

Ancora il 20 gennaio Zurab Pololikashvili, segretario generale del WTO, presentando l’annuale documento di previsione del mercato internazionale definiva con eccessiva sicurezza il turismo “un settore economico leader e resiliente, soprattutto alla luce delle attuali incertezze.”
Pololikashvili si riferiva probabilmente ai “totali” perché, fino a quel momento, la “disgrazia” di una destinazione aveva finito in genere per coincidere con la “fortuna” di altre pareggiando il risultato finale. Ma lo stesso giorno della relazione del WTO (sembra un paradosso) Xi Jinping chiamava i propri connazionali ad uno sforzo totale per fermare la diffusione di un virus (il Covid-19) che era stato identificato e reso pubblico al mondo meno di quindici giorni prima e quello che in quel particolare contesto appariva ancora come un problema cinese ha finito invece per dimostrare la fragilità assoluta (e globale) dell’industria turistica.

Una fragilità del tutto particolare dovuta ad un insieme di fattori, a partire dal fatto che il suo core business è costituito dalla commercializzazione di momenti di svago, piacevolezza, sogno e alterità e che qualunque elemento intervenga a turbare anche uno solo di questi elementi finisce inevitabilmente per compromettere, agli occhi del fruitore, l’interesse per il prodotto e ad indurlo a considerare opzioni alternative, sia in termini di scelta della destinazione che di scelta tout court (dal momento che “fare turismo”, ricordiamocelo, non costituisce un obbligo per nessuno).

Così ci siamo resi conto che i sistemi turistici sono esposti ad una grande varietà di minacce sia di carattere locale che di carattere globale, sia di natura “endemica” (l’insicurezza percepita, l’instabilità politica, la compromissione ambientale) che di natura “acuta” (il terrorismo, le emergenze sanitarie, le catastrofi ambientali e tecnologiche, i cambiamenti climatici, ecc.). Senza bisogno di arrivare al coronavirus qualunque romagnolo ultra-quarantenne ricorda ancora come un incubo l’estate delle mucillagini, ma basta una primavera particolarmente piovosa per compromettere il bilancio di una stagione e per alcune località è diventato un fattore di crisi anche la gestione della movida serale o notturna.

Questo primo – e del tutto parziale – elenco ci aiuta però a rispondere alle tre domande iniziali o, almeno, a cominciare a farlo.
Immaginando che questa ipotetica “unità di crisi” faccia capo agli enti territoriali (ad esempio alla DMO) è abbastanza evidente, a mio avviso, che il suo ruolo nella fase topica delle crisi non possa che essere limitato (con l’eccezione di quelle situazioni più strettamente localizzate), mentre potrebbe risultare estremamente utile nelle fasi precedenti (con una funzione – più previsionale che preventiva – di analisi degli scenari possibili e di sensibilizzazione delle autorità preposte) e soprattutto nella fase risolutiva delle stesse. Anche l’emergenza coronavirus finirà e in quel momento – o forse ancora prima di allora – si tratterà di ricostruire quelle condizioni di fiducia che fanno del turismo un momento di svago, piacevolezza, sogno e alterità. Si tratterà, cioè, di riprendere il filo di quella “narrazione” che il virus ha drammaticamente spezzato e che solo con un’azione puntuale, sistematica e competente si può pensare di ricostruire.

Di Andrea Pollarini

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