Secondo il Rapporto, a diversi mesi di distanza dal crollo delle borse del 15 settembre 2008, ci si interroga in merito agli effetti della crisi economica, sull’occupazione e sul capitale umano, nel quadro di un contesto caratterizzato da grandi mutamenti che hanno profondamente condizionato l’evoluzione delle economie industrializzate negli ultimi vent’anni. In particolare ci si riferisce a tre principali tendenze: l’avanzamento tecnologico, il processo di globalizzazione, le riforme del mercato del lavoro e del mercato dei beni e servizi, nell’ottica di una progressiva deregolamentazione. Questi fenomeni hanno amplificato il ruolo del capitale umano nel favorire la competitività delle imprese e, allo stesso tempo, hanno determinato una spinta verso l’aumento delle opportunità di occupazione e di reddito per i lavoratori qualificati, soprattutto nei settori ad alta intensità tecnologica. La crisi si è inserita in questo scenario complessivo interagendo con le diverse dinamiche dei sistemi economici e determinando impatti sul mercato del lavoro a seconda delle peculiarità specifiche di ciascun Paese.
Competitività delle imprese
Alcuni aspetti del sistema bancario italiano considerati elementi di debolezza strutturale, come la ridotta propensione al rischio sul mercato del credito, sembra abbiano altresì protetto il nostro Paese dagli effetti della crisi più che altrove. D’altro canto, tali elementi possono divenire un freno alla ripresa economica, rallentando il necessario flusso di liquidità per le imprese. Quanto al nostro sistema produttivo, nel corso degli ultimi vent’anni l’aumento della competizione internazionale legata al processo di globalizzazione ha fatto emergere alcune debolezze, quali un certo rallentamento della dinamica della produttività ed una perdita di competitività delle imprese a cominciare dalla metà degli anni Novanta. Tutto ciò si è verificato in un quadro segnato da un ampio dualismo territoriale. Le regioni settentrionali si trovano in una posizione più vantaggiosa rispetto alla media comunitaria (tassi di specializzazione produttiva, di disoccupazione, di occupazione ecc), mentre quelle meridionali appaiono fortemente penalizzate. Di conseguenza, i valori medi degli indicatori nazionali riflettono questa polarizzazione, nascondendo dice il Rapporto Isfol, situazioni di eccellenza nelle città e nei territori del Centro-Nord e sacche di forte criticità nel Mezzogiorno.
Sempre a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, sul fronte del mercato del lavoro, anche in virtù delle norme introdotte dalle riforme Treu e Biagi, si è comunque registrato un consistente e generalizzato incremento dell’occupazione. Contestualmente è aumentata l’offerta di lavoro, con un incremento del tasso di attività, una più alta partecipazione femminile e crescenti flussi migratori. È seguita una riduzione del tasso di disoccupazione ed in particolare, della durata della disoccupazione giovanile. Da registrare, inoltre, come il numero di occupati a termine e la durata media di trasformazione dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato siano in linea con la media europea.
Relativamente al capitale umano, nella realtà italiana (produzioni tradizionali, limitata capacità innovativa, dimensioni medio-piccole delle imprese), si registrano dinamiche, almeno in parte, in controtendenza rispetto alle evoluzioni di scenario generale. Sono diminuiti, infatti, i rendimenti dell’investimento in istruzione da parte degli individui e non si è verificato un aumento delle opportunità occupazionali della forza lavoro più qualificata. In sostanza, la domanda hight skilled workers non si è incrementata in misura sufficiente ad assorbire l’offerta. I mismatch tra profili richiesti dalle imprese ed offerti dalla forza lavoro in ingresso nell’occupazione hanno ulteriormente pesato sulla bassa dinamica salariale dei lavoratori con elevate competenze. A ciò si affianca la ancora scarsa diffusione della formazione sul lavoro, fenomeno anch’esso connesso alle caratteristiche della realtà produttiva italiana in termini di settori produttivi, intensità di innovazione e dimensione d’impresa. È quindi urgente l’attivazione di interventi in grado di fare della formazione un elemento strutturale di politica economica, per diffondere conoscenze e competenze professionali collegate al nostro sistema produttivo, alle sue dinamiche innovative e allo sviluppo sostenibile.
Evoluzione delle politiche europee e modelli di welfare differenziati
Dal Rapporto Isfol vediamo ancora una volta come i mercati del lavoro dei diversi Paesi europei siano fortemente eterogenei. Solo 8 dei 27 Stati membri sono allineati con l’obiettivo della Strategia di Lisbona, che fissa un tasso di occupazione del 70% entro il 2010. E 16 sono quelli che ottemperano all’obiettivo del 60% di donne occupate nella fascia di età compresa tra i 15 e i 64 anni: quasi tutti gli Stati sono ancora caratterizzati da una marcata disparità di genere. Nell’Ue27 il differenziale nei tassi di occupazione ammonta al 13,7%. Questo divario è inferiore ai cinque punti percentuali esclusivamente nelle economie fortemente inclusive quali Finlandia e Svezia, mentre raggiunge i valori più elevati nelle economie mediterranee, come Grecia (26,3%), Italia (23,1%) e Spagna (18,6%). In definitiva, in Europa convivono due tipologie di mercato: i mercati inclusivi, che caratterizzano i Paesi in cui anche a costo di una riduzione d’orario generalizzata la partecipazione al mercato è molto elevata e mercati segmentati, dove il lavoro si esplica fondamentalmente nell’arco dell’intera giornata e la partecipazione delle persone è più limitata. A questi due modelli contrapposti si legano spesso esempi di welfare altrettanto differenziati: da una parte un welfare sociale di tipo partecipativo, ma fortemente indirizzato agli individui, dall’altra un welfare assistenziale di tipo familiare.
Occorre comunque considerare che nel confronto europeo, condotto tramite valori medi nazionali, non emerge la polarizzazione Nord-Sud che caratterizza il nostro Paese. Il livello degli indicatori misurati nelle regioni settentrionali risulta, infatti, ben al di sopra delle corrispondenti medie riferite al contesto comunitario. Se guardiamo poi al capitale umano, c’è anche qui una forte eterogeneità della popolazione europea relativamente ai percorsi formativi, eccetto le possibili discrasie indotte da sistemi scolastici non omogenei. La quota di laureati sul totale della popolazione attiva varia, ad esempio, da un minimo del 12-13% a valori che superano il 30%. È evidente quanto sia importante la dotazione di capitale umano per lo sviluppo e la competitività dell’intero sistema economico. Gli Stati europei con minore dotazione di capitale umano (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Italia, Portogallo Slovacchia, Grecia) sono anche quelli in cui la produttività del lavoro è più bassa.
Il direttore del Fondo monetario internazionale (Fmi) , Dominique Strauss-Kahn, ha detto che la ripresa in Europa va a rilento per la rigidità del mercato che rende più difficile il ritorno al potenziale di crescita. Riguardo al 2010, ha sottolineato Strauss-Kahn, sarà un anno di trasformazione e dovrà prevedere correttivi al sistema regolatorio che ha mostrato la sua debolezza nel corso della crisi. “Nelle economie avanzate – ha spiegato – la ripresa sarà più a rilento rispetto ai Paesi emergenti, e questo è soprattutto vero in Europa. L’Europa centrale in particolare, è stata tra le aree più duramente colpite dalla crisi economica e finanziaria. In ogni caso, anche per l’Europa le cifre che pubblicheremo nei prossimi giorni saranno molto meglio di quelle precedenti. A breve, il Fmi renderà note le nuove previsioni economiche mostrando che la ripresa globale sta effettivamente prendendo piede in maniera più significativa di quanto non ci si aspettasse”. “Dobbiamo tutti – ha ribadito il direttore del Fondo monetario internazionale – tenere a mente che una crisi del lavoro non ha solo natura economica, ma anche una natura sociale. Questa crisi del lavoro durerà ancora per mesi non possiamo dire che sia alle nostre spalle”.